Leonardo
Si rimettono al lavoro. Somministrano le cure per i pazienti. C’è anche un bambino di dieci anni tra i suoi pazienti. Ettore vede la paura nei suoi occhi: è solo, cerca la mamma, ma in reparto non fanno entrare nessuno.
«Come ti chiami?», gli chiede.
Il piccolo, con le lacrime agli occhi, risponde: «Mi chiamo Leonardo, ma la mamma mi chiama Leo».
«Sai, Leo, non devi avere paura, non sei solo. Io e i miei colleghi saremo qui a sostenerti e ad aiutarti, puoi chiamarci per qualsiasi cosa, per fare una chiamata con i tuoi cari o anche solo per parlare. Ce la farai».
«Ma io vi vedo a stento gli occhi, sembrate astronauti!».
«Se dobbiamo curarvi, non possiamo rischiare di ammalarci. Altrimenti chi si occuperà di te e degli altri? Superman ha la sua tuta con il mantello rosso, ogni supereroe ne ha una per sconfiggere i cattivi: questa da astronauta è la nostra per sconfiggere questo virus monello. Andrà tutto bene».
Ettore non è sicuro di quello che dice, non è certo che questa sia una malattia curabile, per lo meno non ancora, ma non poteva dire la verità a quel bambino, sarebbe stato un peso troppo grande per lui.
Dopo aver parlato con Leonardo, esce dalla stanza, è triste e pensa a suo figlio Fedele, se ci fosse stato lui al posto di Leo? Lo chiama, ha bisogno di sentire la sua voce, è preoccupato perché ad ogni chiamata pensa che potrebbe essere l’ultima.
Dopo qualche giorno Leonardo viene dimesso, è felicissimo e ringrazia Ettore per tutto quello che ha fatto per lui.
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